Il Grano Saraceno Siberiano Valtellinese (Fagopyrum Tataricum)

Con gli amici Greta e Patrizio di Raetia biodiversità alpine condividiamo queste coltivazioni estreme, una vera delizia, non per tutti!

Raetia Biodiversità Alpine

Nel 2010 ho intrapreso il recupero del Grano Saraceno Siberiano (Fagopyrum Tataricum) varietà autoctona della Valtellina, portata a Bormio nella seconda metà del 1700 dall’Abate Ignazio Bardea.

A volte bistrattata, in media e bassa Valle, è una vera agrobiodiversità territoriale che nei secoli passati era presente e diffusa sia sull’arco Alpino che sugli Appennini dove è da tempo scomparsa. A testimonianza della sua presenza condivido con voi questo documento, copia ottenuta grazie all’amico Massimo Angelini, che ne attesta la presenza in Liguria nel 1700.

In Valtellina si è mantenuta perché da sempre presente, considerata come “infestante”, nella coltivazione del Grano Sarceno Comune (Fagopyrum Esculentum).

Paradossalmente rischiava di scomparire perché molti, per evitare il “fastidio” generato dalla sua presenza, preferivano coltivare Grano Saraceno Comune di importazione che ibrida i nostri ecotipi tradizionali e mette così a rischio di perdere altre agrobiodiversità Alpine.

Una grossa mano alla conservazione di questa varietà che…

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TZÈRB eRETICO DOC 2018, un ringraziamento alla memoria degli avi

La nostra prima bottiglia uscita allo scoperto, una DOC di ringraziamento.

In famiglia è da generazioni che produciamo vino, il vino dell’autoconsumo, per amici e parenti.
Nasce tutto dall’uva delle vecchie viti di Nebbiolo-Ciuvinasca (Chiavennasca) e degli altri vitigni rari e autoctoni di Valtellina, nella piccola cantina storica dei (furono) nonni dove, praticamente da sempre, si fa il vino.
Tra antiche mura in pietra, in spazi spesso angusti ma favolosi, dove una vita microbica si tramanda, anch’essa, di generazione in generazione.


Gli attrezzi del mestiere sono pressoché gli stessi che i nonni mi hanno lasciato, l’essenziale, tutt’altro che industriale ma profondamente artigianale, nel senso stretto della parola!

Una fascetta “DOC“, un riconoscimento dato dal Consorzio di tutela vini locale, gli stessi di quel sistema per i quali i miei antenati si arrabattavano per una minestra la sera, se andava bene, tante fatiche nelle scomodità del mondo rurale del tempo, un tempo non troppo distante da noi, fino a pochi decenni fa, qui.

Una sorta di premio, un “grazie”, l’omaggio che vorrei donare alla loro memoria, lì nacque, lì ritorna e prosegue, adattandosi ai tempi moderni; da lì il vino TZÈRB parte, esce dalla porta della vecchia cantina e si tuffa del mercato, spesso dopato, del mondo del vino globale.

Le prime 1200 bottiglie, nel rispetto di tutte le norme attuali, dopo anni di personale sperimentazione, sia in vigna che in cantina, senza mai aver fatto corsi di enologia, di sommelierie.

Senza troppi fronzoli, ma una continua e costante voglia di sperimentare e assaggiare, un risveglio dei sensi troppo spesso assopiti, cercando di creare un vino personale,
qualcosa di nuovo, una propria espressione del vino di Valtellina.

Questo è lo TZÈRB eRETICO DOC 2018, da uve surmature di viti in equilibrio, nell’ecosistema vigneto adattato all’ambiente circostante, con visione assolutamente non “estrattiva” ma “conservativa e rigenerativa”.
In cantina, ovviamente lieviti indigeni, lunghe macerazioni sulle bucce per fare esprimere al meglio i poteri organolettici della biodiversità dei vitigni, niente legno di botti poco territoriali, solo acciaio o, dove non posso permettermelo, si usano cisterne di vetroresina.

Dopo 2 anni dalla vendemmia, con circa 2 travasi all’anno, senza filtrazioni, chiarifiche o additivi enologici, va in bottiglia dove prosegue il naturale affinamento.
Gradazione alcolica di 14% vol/alc e senza solfiti aggiunti, SO2 minore di 10mg/litro.
E ora, finalmente, ce lo si può godere alla luce del sole, nei locali, con vecchi amici e con i nuovi conoscenti, appassionati della nostra micro realtà;
consapevolmente micro e desiderosa di rimanere qui, nel piccolo borgo di Pila Boscarini, sempre felice di accogliere nuovi amici nel luogo di origine.

Sui social ci trovate come “Orto Tellinum genuino alpino”

TZÈRB, la coltura degli incolti

Nel dialetto locale la parola “TZÈRB” sta ad indicare un terreno abbandonato.    

Negli anni, la principale delle nostre missioni, è stata recuperare gli incolti.    

Sottrarre terre, spesso piccoli appezzamenti impervi di versante, all’incuria e alla rovina, è sempre stata una nostra (malsana!?) passione, una sorta di sentita missione. 

Immersi nelle sterpaglie, pizzicati e graffiati dai rovi, un groviglio di infestanti fameliche che avvolgono l’archeologia agricola valtellinese, una terra nuovamente fertile, bonificata nel ciclo naturale dell’abbandono che, seppur strano a vedersi, dona nuova linfa ai terreni, spesso, troppo sfruttati nel recente passato. 

Nasciamo così e così continuiamo, un passo alla volta, molte volte camminando controvento, su queste rocce, sudore, legno e tralci, segno d’un continuo lavorio (e logorio) delle genti prima di noi. 

Ora viviamo tra le comodità, siamo fortunatissimi! 

Siamo una brutta copia sbiadita degli Eroi che hanno modellato e plasmato questi terrazzamenti, siamo fatti con materiale più scadente, ci rompiamo (e stanchiamo) più facilmente (probabilmente!), ci sbizzarriamo a ripensare il presente, per cercare di migliorare (o, almeno, salvaguardare) il futuro, consci che tutto è cambiato, che tutto si evolve rapidamente e noi, spesso ostinati a non capire, ancora percorriamo quelle antiche vie che, tutt’oggi, ci danno di che vivere.  E anzi, desiderosi e aperti, accogliamo chi, da vicino o da lontano, voglia apprendere queste arti e iniziare a calpestare le impronte di un tempo, un tempo lontano, che rispettiamo ma che, troppo spesso, ci ha allontanato dalle attività agricole, sperando convintamente nello “sviluppo industriale” o nel “settore terziario”, modelli economici che, in pochi anni, finora, hanno raggiunto l’apice, ed ora, inesorabilmente, troppo spesso, sono già finiti  (…).

Sta a noi cercare di dare un piccolo buon esempio, rivoltare quelle zolle, con rispetto e consapevolezza, ora che siamo più “studiati”, chiniamo la schiena ed elogiamo il suolo e la terra fertile ma, non dimentichiamoci, di osservare il panorama, alzare lo sguardo verso il cielo e, soprattutto, gioirne e goderne.

Ah, quasi dimenticavo, “TZÈRB” è divenuto il nome del nostro vino, da uve di queste vecchie vigne abbandonate o da vigneti che rischiavano di divenirlo e, finora, non lo sono; ovviamente conservando i vecchi ceppi di vite e riportandoli in produzione, poco ma buono, ma questa è un’altra storia…

PS. sui social ci trovate digitando “Orto Tellinum genuino alpino

Le vigne dei nonni degli altri

Era da un po’ che non scrivevo in prima persona in questo (mio) blog…

L’amico “WildFrank” mentre scava “zoche”

È stato un periodo intenso di faccende e pensieri e ora, finalmente, posso mostrare al mondo cosa abbiamo creato negli anni.

Siamo pronti per uscire allo scoperto, dal nostro tugurio (cantina), e farvi inebriare con lo TZÈRB, il vino Eroico Ribelle!

TZÈRB eRETICO 2018: la nostra prima bottiglia uscita!

Negli anni abbiamo (ho…) recuperato vecchie viti (di Nebbiolo-Chiavennasca e altri vitigni rari e autoctoni di Valtellina), sui terrazzamenti nella zona di Teglio (SO) e le sue frazioni, piccoli appezzamenti, con qualche manciata di piante, sorretti da muri in pietra a secco, spesso avvolti dai rovi e/o del tutto abbandonati.

Sono le Vigne dei Nonni degli Altri, una miriade in numero e piccole in estensione, un frazionamento incredibile, alcune di 200-300 metri quadri, difficilmente più di 2 pertiche (pertica valtellinese = 688 m2) e comunque, poche viti, intervallate da muri, sentieri, zone incolte, un labirinto di pietra, legno, archeologia agricola, opere maestose degli eroi del passato.

Questo scritto è per ringraziare loro, le persone, spesso anziane, che mi hanno dato in gestione le loro preziose vecchie viti.

Molti di loro ora non ci sono più, mi raccontavano che quelle piante furono messe a dimora dai loro avi, che quel Baitèl* l’avevano costruito con loro padre, convinti, e nella speranza che in famiglia qualcuno proseguisse con quest’arte (la passione), sicuri, come è sempre stato fino all’altro ieri, che tutto si sarebbe tramandato di generazione in generazione, come accade da millenni, ormai, qui, in Valtellina, e invece…

Bè, invece dai, finalmente, forse qualcosa sta cambiando, forse si riesce, almeno in parte, a invertire la rotta, inesorabile, del moderno abbandono delle terre alte (questa è più una speranza che la realtà…).

Ringrazio, ovviamente, i discendenti di quegli Eroi, che si son fidati di me, lasciandomi in gestione le terre ereditate, cosicché io possa mantenerle vive e attive, sperando che i loro figli (o i figli degli altri), in futuro, le conservino a loro volta…

Spesso, in questi vigneti, ho tenuto gli stessi pali in legno di castagno fatti dai proprietari in tempi andati, sistemato la struttura di sostegno del filare, cambiando o aggiungendo qualche filo di ferro (anch’esso ovviamente di recupero!), ma fondamentalmente ho cercato di custodire le vecchie viti, cercando di fare tagli corretti di ringiovanimento sul legno vecchio, stimolando nuovi flussi linfatici, per poter allungare la vita della vite, mantenendola, o riportandola, in produzione, con l’idea di tramandare quei contorti ceppi, con radici ben aggrappate alla roccia madre, alle future generazioni, senza dover ricorrere, agli ormai troppo frequenti, re-impianti di viti “nuove” (…).

Sono pienamente convinto che, se perdiamo queste ultime antiche viti, il vino del futuro saprà solo di parole!

Altro che Cru, Terroir, salinità ecc ecc, abbandonando o estirpando questi “templi sacri vegetali” stiamo smarrendo, in continuazione e ovunque, un autentico Patrimonio genetico e organolettico che sarà difficile, se non impossibile, ripristinare.

Quindi armiamoci di forza di volontà e proseguiamo il nostro cammino, spesso camminando controvento, in Valtellina (semicit.).

PS. sui social ci trovate come “Orto Tellinum genuino alpino

*struttura rustica utilizzata come ricovero attrezzi

“Coronavirus” cambia il clima. Nulla dovrà tornare come prima.

Parola di Teodoro di “Civiltà Contadina”…

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Per una campagna dal basso, sociale, ecologista, conviviale.

L’idea mi è venuta dopo aver riflettuto su alcuni  dati importanti. Dopo la crisi del coronavirus, quella che in questo momento stiamo vivendo,  dentro questo periodo di angosce e paure, dolore e panico, alcuni elementi ridisegnano la  realtà. Non tutti negativi.

Per esempio: la diminuzione  dell’inquinamento dell’aria. L’annullamento di milioni di voli ha provocato, si vede dai satelliti, assieme alla riduzione  del traffico stradale, una sostanziale  pulizia  dei cieli del nord Italia. Presto, nelle prossime settimane, questo effetto si produrrà sull’Atlantico del nord. I ghiacciai del Polo proseguono nel loro scioglimento. Il Brasile prosegue la deforestazione dell’Amazzonia. Per mancanza  di consumatori, per la riduzione delle attività su scala globale,  siamo certi che anche questa dovrà rallentare. L’economia mondiale, largamente finanziarizzata, basata su speculazione ed azzardi più che  sul solido ancoraggio all’oro, com’era prima, barcolla alle prese con un virus invisibile.

Campagna Civiltà…

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Il paradosso dell’agricoltura biologica

La produzione del cibo inizia con la rivoluzione agricola, il momento in cui l’essere umano smette di raccogliere granaglie, legumi, bacche e frutti e inizia a domesticarli, a selezionarli conservandone la semente in modo differenziale (questa pianta ha dato buoni frutti, useremo i suoi semi per l’anno venturo…), in una parola a coltivarli. Questo processo graduale è databile intorno a 10mila anni fa e avvenne quasi contemporaneamente, con tutta probabilità, sia in medio oriente che in Asia e nelle americhe. Di “poco” successivo l’addomesticamento di alcune specie animali e il conseguente inizio dell’allevamento. Si passò dunque, dopo decine (centinaia, se consideriamo tutta la storia delle varie specie di Homo) di migliaia di anni, da un’alimentazione basata sulla raccolta e la caccia, ad un’alimentazione che poteva essere gestita secondo una programmazione annuale e pluriennale (imprevisti permettendo) e consentiva di generare un’abbondanza mai vista prima. Non è forse un caso che la civiltà, la città, la nascita del potere politico, dei primi stati dell’età antica sono fenomeni inziati proprio a seguito di questi cambiamenti. Per qualche millennio la situazione non cambiò granchè, fino all’arrivo sulla scena della Storia di due altre rivoluzioni di capitale importanza, la rivoluzione scientifica e la rivoluzione industriale.

Per farla breve sono le applicazioni della scienza e della tecnica moderna, insieme al sistema industriale, ad aver trasformato l’agricoltura, che per millenni era stata certamente una pratica artificiale, perché operata dagli esseri umani (quindi non un insieme di processi naturali spontanei), ma allo stesso tempo pressoché naturale, in quanto basata su un’alterazione piuttosto contenuta di quanto normalmente accade in natura (le uniche eccezioni essendo la monocoltura, le lavorazioni dei campi e la selezione artificiale delle specie coltivate ed allevate). Dall’ottocento in avanti, fino alla nascita e proliferazione dell’agricoltura biologica nel secondo novecento, invece, l’artificialità è cresciuta notevolmente, sotto forma di interventi “chimici” di fertilizzazione, diserbo, contrasto di patologie (dovute per lo più alla monocoltura combinata con l’utilizzo di varietà di selezione moderna, selezionate per la resa e/o certe altre caratteristiche desiderate), fino alla creazione degli OGM (organismi geneticamente modificati). Il tutto, chiaramente, secondo la logica del profitto, che ha portato l’agrochimica industriale a consociarsi con la GDO (grande distribuzione organizzata), finendo con l’essere una parte del processo complessivo di affermazione del capitalismo consumistico: mercati prima e supermercati poi pieni in modo ridicolo di cibi di ogni tipo, causanti molti sprechi e la tendenza ad un consumo esagerato (si veda la proliferazione dell’umano – recentemente anche dell’animale domestico – sovrappeso con patologie conseguenti e correlate), a fronte naturalmente di quel secondo, terzo e quarto mondo con diffuse malnutrizione e denutrizione. Nonché attecchimento, nei “paesi sottosviluppati”, dello stesso modello agrochimico-industriale, ovviamente al fine di un perverso perfezionamento del consumismo alimentare del primo mondo, elemento peraltro perfettamente recepito e per certi versi peggiorato anche dall’agricoltura a favore di vegetariani e vegani (per la necessità in queste diete di sostituire alimenti di origine animale con esotici prodotti vegetali provenienti da zone sottosviluppate, dove lavoratori e terreni vengono ampiamente sfruttati e depauperati).

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Ancora: vigneti secolari, originariamente composti da piante ad alta biodiversità, sostituiti da produttivi cloni (come la pecora Dolly – piante geneticamente tutte uguali) per ettari e ettari, perché più produttivi, uniformi etc, mangimi per animali prodotti a migliaia di kilometri mentre i pascoli collinari e montani europei sono all’abbandono (e ci si ferma qui sul mondo dell’allevamento, giusto per risparmiarvi orribiltà assortite da voltastomaco), ortaggi ibridati artificialmente per decine di generazioni per ottenere polpe sode (che non si ammaccano nei trasporti) o altre caratteristiche legate al lato commerciale e non certo sapori eccelsi o resistenza alle patologie per esempio, frutta e verdura prodotti in inverno a suon di gasolio per riscaldare le serre, proliferazione di trattori e mezzi vari molto pesanti, che compattano troppo il terreno compromettendone la fertilità, già avvelenata dai diserbanti, fertilizzanti, antiparassitari, anticrittogamici etc, che hanno portato, portano e porteranno alla morte dei suoli, da unirsi in un bel pacchetto regalo per le generazioni future all’uso irresponsabile dei combustibili fossili, che sta causando il più celebre riscaldamento globale.

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Dagli eccessi dell’agricoltura chimico-industriale, soprattutto nella forma della percezione crescente, perlomeno dagli anni ’70 in poi, dei danni ai terreni, alla biodiversità e alla salute di persone, animali ed ecosistemi da questa procurata è nato il “movimento” per l’agricoltura biologica: un paradosso in quanto l’agricoltura era stata per millenni certamente biologica, perfino più biologica di quella certificata come tale da disciplinare, in quanto infatti, intanto, non era industriale, cioè “massificata” e sottomessa al profitto, e in ogni caso non utilizzava chimica e meccanizzazione come invece comunque fa l’agricoltura biologica, seppur in misura limitata rispetto all’agricoltura convenzionale.

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Ma come è noto l’agricoltura biologica, per quanto in crescita, è ancora una parte esigua rispetto al totale. L’industrializzazione chimica e meccanica dell’agricoltura prosegue infatti tuttoggi ed essendo passate ormai un numero sufficiente di generazioni agricoltura è divenuta, nell’immaginario collettivo, agrochimica industriale tout court. Se si va da uno dei sempri più rari vecchi contadini che ricordano le arature con i buoi o i cavalli e le interminabili raccolte a mano, parlando di necessità di abbandonare le tecniche “moderne” si verrà presi per matti, masochisti che auspicano un ritorno a fatiche ormai inimmaginabili, pochi o nessun profitto e una vita di insicurezze…

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Ci fermiamo qui per il momento, avendo fornito – si spera – qualche spunto di riflessione sul nostro stile di vita come individui e come società: libri, siti web, documentari non mancano per informarsi ulteriormente. A disposizione informazioni anche sulle possibilità di cambiare questo scenario deprimente ma non irrimediabile con soluzioni praticabili e praticate. Ma prima bisogna uscire dal sonno consumistico, smettendo di essere infantili, poiché, come bambini, spesso ci si rifiuta di guardare alla realtà, per voler rimanere in un sempre più problematico sogno ad occhi aperti, quello del voler vivere nel paese dei balocchi, un delirante sogno che, se mantenuto e non evoluto, si trasformerà in un incubo per la vita sulla terra.

 

Testo di Emanuele Del Curto, filosofo.

In collaborazione con Orto tellinum – genuino alpino

http://www.facebook.com/ortotellinum

Valtellina BIO: una frutticoltura alpina, sostenibile e identitaria

Sembra giunto il momento di pensare ad un nuovo modello di frutticoltura (e di agricoltura) per la montagna e le aree interne. Quella che abbiamo ereditato dalla “rivoluzione verde” e cioè industriale, chimica, ad elevati investimenti, geneticamente spinta, energivora, legata alla GDO non è più in grado (a differenza del passato) di garantire benessere, ricchezza e qualità della vita sia per chi opera in frutticoltura, e sia per chi abita tra i meleti con il diritto di vivere in un ambiente sano, pulito, giusto ed etico. Lo “scambio” tra reddito e salute che aveva governato lo sviluppo impetuoso delle melicoltura industriale valtellinese è saltato, perché è venuto meno il reddito che garantiva la produzione di mele. E se questo “patto” deve essere necessariamente ridefinito, pena il progressivo espianto di frutteti, e la marginalizzazione della frutticoltura nel quadro delle produzioni identitarie della Valtellina, è necessario innanzitutto guardare a come si stanno riposizionando sistemi territoriali e produttivi simili alla Valtellina.

Punto.Ponte

a cura di ART srl – Analisi, Ricerche e Interventi Territoriali

“Il cibo è metafora, la più bella, la più interessante e
completa per osservare le cose del mondo.Perché mostra sì con estrema
rapidità tutte le cose che stanno andando male, e le ragioni per cui vanno
male, ma indica altrettante soluzioni perché possano andare meglio”.

La coltivazione del melo in Valtellina

La frutticoltura, ed in particolare l’allevamento del melo, ha origini antiche in Valtellina. Tracce della sua indicativa presenza si trovano in epoca medioevale, riconosciuto tra “gli alberi da frutto” di cui era particolarmente ricco il territorio valtellinese, soprattutto sul versante retico. Una frutticoltura, quella valligiana, non ancora specializzata, e praticata in ambito dell’azienda agricola familiare e di conseguenza destinata principalmente all’autoconsumo. Ciò significava per altro verso, la presenza di una gamma varietale molto ampia costituita oltre che da mele, da pesche, pere, susine e ciliegie. Il…

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